venerdì 26 Aprile 2024

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Festival di Sanremo 2021, la Storia Infinita

Non ce la si fa proprio. Ore ore di lagna infinita, di inutilità, di gag d’asilo, di quadri pseudo scandalistici, di giornaliste dal tono monocorde suscita sbadigli. Fino a orari improponibili. Ti credo che gli ascolti sono in calo. E per fortuna, non ci sono i soliti attori di Hollywood prendi i soldi e scappa, ad allungare il brodo eterno: ci basta il calciatore rigido come un manico di scopa.


Ha ragione Ermal Meta, costretto ogni volta a cantare tardissimo. E’ candidato alla vittoria e va pure bene, almeno “Un milione di cose da dirti” è elegante, romantica, un classico della canzone d’autore e lui è uno dei pochi che sillaba bene le parole facendole capire.

Trenta canzoni, le 26 dei big più le quattro delle nuove proposte (una categoria senza senso, visto i nomi di un quarto della serie A) non sono abbastanza per allungare il brodo della storia infinita. Né bastano a tenere svegli i flash accecanti delle ghiacchette di Amadeus.

L’inizio della gara tra i big promette già noia infinita. Un bel via vai, uno dietro l’altro, di urlatori dal cuore spezzato, in un gioco (chissà se voluto o frutto del caso per la scelta della scaletta) di scambi, palleggi, sliding door, tra femminile e maschile, le due versioni dello stesso concetto: Annalisa, che continuo a trovare senza personalità artistica con “Dieci”, e Aiello, un altro inchinato al mito Mahoomd Dardust, un altro che strilla, un altro dalla faccia truce e dall’anima tenera, un altro che non fa capire una parola di quello che urla con “Ora”. Boh.

All’appello dei cuori spezzati arriva anche Arisa, finalmente con un look che non la rende la strega di Biancaneve. Anche lei cede alla voglia di urlare per “Potevi fare di più” a firma Gigi D’Alessio: e io penso che il cane del testo proprio non l’aspetta a casa, avrà chiamato la protezione animali pur di non sorbirsi una padrona strillante.

Questi urlatori non imparano che si può lasciare il segno senza acuti nemmeno dalla regina del Festival, l’Orietta nazionale. In rosa e mantella glitter, sembra un’aliena catapultata su un palco. Non la scalfiscono nemmeno le gaffe (volute?), imperturbabile, cristallina, pronta a sfornare tortellini e torte tra una nota e l’altra. Magari facesse un duetto davvero con i Maneskin, porterebbe loro un po’ di sana ironia, di non prendersi così sul serio, facendo perdere quell’ espressione da “semo i più fighi del bigonzo”.

Frecciatina alla storia infinita pure da Lo Stato Sociale: “lavoriamo con il favore delle tenebre”. La loro “Combat pop”, anche senza le messe in scena sul palco, rimane in testa, con un mood da festa paesana e con un verso che sembra rispondere alla metà dei brani in gara: nella vita si può dire di no alle canzoni d’amore.


Fanno spettacolo vero, come gli Extraliscio, sempre da balera anni Duemila, e Max Gazzè, che si è ritrovato, dopo l’opaca perfomance della prima sera, in versione scienziato pazzo con la sua tipica filastrocca-scioglilingua “Il Farmacista”, stavolta travestito da Salvador Dalì e senza cartonati, è già buffo da solo.

Alla fine emergono quelli che portano un ritornello orecchiabile, un tocco di leggerezza e abilità musicale.

Così salgono la classifica la dissacrante “Mai dire mai (La Locura)” di Willie Peyote con quel “schiavi dei like” che resta in testa e “Musica leggerissima” di Colapesce e Di Martino, rivalutata anche se è tra gli Empire of The Sun, il duo australiano pennuto ben prima di Lauro, e “Se mi lasci non vale” di Iglesias senior, non a caso già vincente in radio.

Anche se la mia preferita rimane “Fiamme negli occhi” di Coma_Cose. Un tocco di leggiadra semplicità nella storia infinita del Festival.

sanremo 2021

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